VERITÀ TACIUTE A FATICA: CONFINI E IDENTITÀ, MURI E OBIETTIVI DELL'IMPERIALISMO PSICOLOGICO

 Si suole dire, a proposito dei paesi del Quarto Mondo, che essi appartengono alle culture di confi ne (o alle culture ai confi ni), una metafora per descriverne il rapporto con i paesi del Primo Mondo. La Repubblica di Macedonia, in quanto paese in transizione, rientra in questa categoria. Dal punto di vista geostrategico, infatti, essa condivide il suo confi ne politico meridionale con uno dei paesi membri dell’Unione Europea, la cui posizione geografi ca è periferica in Europa. In questo ‘paese alla periferia’ dell’Unione, nel cuore della sua Salonicco, a sua volta città di confi ne – presso la rinomata Università Aristotele, nel 1999 Etienne Balibar ha sostenuto la tesi secondo cui il destino dell’identità europea oggi si deciderà nei Balcani e che a tale proposito esistono due possibili scenari : “o l’Europa riconoscerà nella situazione balcanica ... l’immagine e le conseguenze della propria storia e intraprenderà qualcosa per confrontarsi con essa e risolvere il problema..., o respingerà questo confronto con se stessa, credendo ostinatamente che tale problema sia solo un ostacolo esterno da superare dall’esterno, con mezzi che includono la coloniz-zazione...” (Balibar 2003a: 27-28; il corsivo è mio).

 

Questa sfida impone la (re)integrazione della regione balcanica, nei confi ni politici dell’Europa, come parte della sua dimensione democratica in cui con continuità si sviluppi un incontro tra culture. Senza questo incontro, infatti, l’umanità non progredisce, poiché ogni sforzo di capire noi stessi nasce dalla coscienza della nostra insuffi cienza.Il bisogno di un dialogo con i diversi da noi, la necessità di un loro sguardo che rispetti e tolleri le differenze è la chiave per comprendere ciò che esiste oggi solo come progetto: un concetto politico e culturale che ricerca un’entità universale, postnazionale o sovranazionale – la creazione di un’identità culturale europea. Ovviamente ciò non esclude la possibilità di (calco dalle lingue slave) narrazioni proprie, poiché solo i discorsi nazionali  raccontano la storia della nostra realtà, prevedendone il futuro. E ciò rappresenta la forma più vera e naturale di passaggio da un livello più basso ad uno più alto, dall’oggetto (con la ‘o’ minuscola) al soggetto (“il soggetto del discorso”), che potrebbe decostruire gli stereotipi della propria imago realizzando in tal modo il sogno, a lungo agognato, dell’appartenenza di una parte al tutto. Senza traumi o complessi, senza paura di dibattiti accesi, cullando l’idea di un dialogo aperto tra Oriente ed Occidente, Nord e Sud, Balcani ed Europa, come nostro destino comune.

 

Le questioni sollevate nel seguito di questo saggio sono solo un modesto contributo in questa direzione.

 

Il Muro e la visione del muro... una barriera impenetrabile

Il più importante progresso nella sfera cognitiva del mondo postmoderno non è la risposta alla domanda che cosa è la storia e qual’è il posto del soggetto in essa, bensì l’idea degli spazi che il soggetto occupa, arricchito dalla moltitudine di identità acquisite in quella intersezione. Pertanto in modo logico, nella rielaborazione del tempo e della storia, le metafore spaziali hanno sostituito quelle temporali, cosicché, invece dello “spirito del tempo” (Zeitgeist), oggi incontriamo “lo spirito dello spazio, del luogo” (genius loci).

 

Tale spazio, tuttavia, non è un luogo vuoto che attende di essere riempito da persone ed eventi. Nel sistema globale di valori, lo spazio si struttura come un rizoma di relazioni e incontri in cui sussistono identità culturalmente diverse. Animate da concetti teorici potenti come nazione, narrazione, colonizzazione, negazione, le identità rivestono un ruolo chiave in ogni logica politica. La loro esistenza sottintende storie differenti : alcune di esse sottaciute, come post- o anti-storie che non hanno ancora ottenuto un nome, poiché non sono divenute oggetto di corrispondente narrazione. Essere consci della loro esistenza può forse signifi care un capovolgimento cognitivo d’attenzione verso gli schiavi della storia? Là, nel loro tempo spazializzato, il discorso catacrestico dei popoli e dei gruppi marginalizzati riesce a mostrare la propria differenza culturale instaurando un forte legame tra i concetti di luogo e di identità?

 

Questa sembra essere la questione più sensibile della regione balcanica (per noi macedoni, forse anche quella decisiva). La continua pressione esercitata dall’acceso monismo culturale di uno stato confi nante – il non riconoscimento cioè della nostra minoranza, la decisione inconcepibile di veto nei confronti della nostra integrazione con una denominazione uffi ciale nell’ambito di un’alleanza politico-militare e dell’Unione Europea (o la visione di come questa dovrebbe realizzarsi) – ha contribuito ad innalzare un alto Muro, che non fa che confermare i dubbi che i segmenti un tempo intoccabili dell’identità nazionale (storici, geografi ci, etnici, culturali, linguistici), oggi siano solo un luogo di crisi per un dialogo politico aspro, il dissidio tra due nazioni confi nanti e tra due ideologie diverse. In tali circostanze, l’assenza di un unica narrazione – di un’idea accettabile per tutti gli elementi di rilievo in gioco, politici e statali, nella Repubblica di Macedonia – può mettere in pericolo l’esistenza stessa della nazione. Le ragioni sono molto semplici: è più che chiaro che le nazioni sono comunità non solo politiche, ma anche culturali; non sono esclusivamente questione di biologia e di geografi a, ma di cuore e intelletto. Si costruiscono come narrazione, un’idea narrata meticolosamente che culla il sogno di una forma mitostorica, “astratta come concetto, ma concreta come forza storica” (Gourgouris 2004:47). In ogni caso, la storia di una nazione non è forse così importante, assai più importanti sono i destini della gente che ne vive l’ambivalenza. Viviamo infatti le nazioni in due modi: esse sono allo stesso tempo narrazioni e interpretazioni.

 

Sosterrò la veridicità di questa constatazione citando alcuni brani di un romanzo macedone, scritto e pubblicato all’inizio del secolo. Si tratta del Profeta di Diskantrija, opera dello scrittore macedone Dragi Mihajlovski, vicenda di un tempo passato che si riferisce però al momento più attuale della nostra diffi cile realtà. Ecco di che cosa discute il profeta di Diskantrija: “Di una grande, bella e armonica terra barbara – si narra in questo romanzo – ora solo una piccola parte, prevalentemente montagnosa, era diventata uno staterello indipendente, circondato da tre parti da ripidi abissi, mentre nell’ultima a sud, verso cui... si era spinto quel popolo... verso la sua meta a lungo sognata– l’Europa, era stato innalzato quel muro maledetto e non lasciava passare niente e nessuno...” (Mihajlovski 2001: 112; il corsivo è mio).

 

Il muro maledetto, di cui parla il narratore nel romanzo di Mihajlovski, è una metafora per le limitazioni e per i confi ni, non solo per gli uomini di stato, che garantiscono la nostra sovranità e quella dei nostri vicini, ma anche per quelle altre limitazioni – immaginarie, simboliche, imposte politicamente, che per noi “signifi cano il Nome”, e nella coscienza di molti macedoni sono legati anche al dramma del nostro Sud, verso il quale sono rimaste indifferenti tanto la politica uffi ciale della ex-Jugoslavia, quanto molte strutture importanti della Macedonia di oggi. Esse, infatti, hanno assunto posizioni di inferiorità verso il mondo intellettuale e diplomatico europeo, permettendo che questo caso di non civiltà sia visto come problema locale, una specie di sindrome provinciale dei Balcani che, si sa, non sono mica Europa... Ecco come una intellettuale macedone descrive il trauma causato dal fenomeno “confi ne” nella coscienza della sua famiglia esiliata : “Per la famiglia da cui provengo, che affonda le sue radici nella regione di Lerin (Florina)-Kostur (Kastoria), il confi ne... aveva le dimensioni di un mostro gigante, della forza degli elementi naturali, di un muro invisibile... Qui, dietro a questo muro invisibile di aria trasparente, dietro a queste poche spanne della stessa terra... si trova quella ‘casa’, così sognata, desiderata, così voluta da mio padre...” (Kolbe 1999: 94-95; il corsivo è mio). Questa è la testimonianza di Kica Baržieva Kolbe, scrittrice macedone che vive e lavora in Germania. Per tutti noi che siamo ancora oggi “a casa”, il muro è una metafora che rende il nostro “paese barbaro bello e armonico” uno spazio facilmente riconoscibile, da cui vediamo noi stessi là dove non siamo (nell’Unione Europea), mentre scompariamo lentamente qui dove siamo da sempre. Costruito secondo un principio inverso, da un’utopia che signifi ca non-luogo, la triste realtà di questo metaforico spazio fuori da ogni spazio viene defi nita da Michel Foucault eterotopia. Al pari dei musei, che oggi rappresentano gli esempi più evidenti di eterotopie, il nostro paese e noi in esso ricordiamo degli oggetti in esposizione – estranei a noi stessi. Il nostro è un caso unico al mondo...

 

“Tutto, qui e ora, comincia e fi nisce col muro. Anche la mia nostalgia e i miei ricordi e, parrebbe, tutta la mia vita...” (Mihajlovski 2001: 113; il corsivo è mio), rifl ette il narratore di questo romanzo, sollevando una questione molto importante. E cioè, come generatore continuo di signifi cati, il muro ha il volto di Giano, la cui natura duplice, esterna/interna, presuppone che egli unisca e divida i due aspetti. Essi sono, allo stesso tempo, limitazione e avvicinamento: limitazione del Sé e dell’Altro, ma anche il loro avvicinamento in uno spazio geografi co reale. Tuttavia, invece di un processo desiderato e logico di ibridizzazione, il muro-confi ne nel nostro caso produce un luogo vuoto di antagonismo culturale e politico, in cui si conducono lunghissime trattative, da posizioni di potere e autorità. L’effetto di queste trattative, condotte sotto l’occhio vigile della comunità europea e americana con l’intermediazione delle Nazioni Unite (The UN Mediator for the Macedonian Naming), nella persona del signor Matthew Nimitz, non mira all’abbattimento del muro, bensì all’idea della sua trasformazione in uno spazio intermedio prolungato, una specifi ca zona di mezzo con una “strana caratteristica”: accessibile per alcuni, ma severamente vigilata per Noi-Altri. “Quel muro aveva, per così dire, una certa forza incomprensibile, come se non fosse stato costruito da mano umana, ma da Dio stesso o dal diavolo nero, o dalla crudele maledizione di qualche ania infelice e dannata, per essere una beffa contro il mio popolo barbaro, sua vergogna e disgrazia. E quando pensavamo che ne fosse giunta la fi ne e che la sua caduta fosse questione di breve tempo... quello per miracolo si rinnovava, da sé, dall’interno nella sua solida interiorità, come se possedesse un’erba curativa... che ne rinnovava la forza ferita” (Mihajlovski 2001: 127).

 

Sembra che si tratti di un’idea forte e intransigente di nazione, come se fosse un desiderio che nasce in opposizione alla volontà degli Altri, dei vicini, delle identità minoritarie, (quando è in questione) che si tratti de il sogno di una nazione che si trasforma in atto di violenza reale (territoriale, simbolica, politica), che per noi è un fatto storico concreto e incontestabile. Le culture, infatti, riconoscono se stesse proiettandosi sull’Altro. Ce ne danno conferma anche i discorsi post-coloniali sul carattere ibrido e di confi ne delle culture autoctone, che raccontano la loro storia, vivono i problemi della nuova storia, della geografi a post-nazionale e della loro imagologia... Una di queste vicende è svelata anche nel romanzo. “Sempre, quando si trattava del nostro paese o quando la sintassi della frase semplicemente esigeva il nostro nome, quelli, evidentemente su accordo dicevano o this country o your country, ed una volta uno di loro, che Dio lo ripaghi, ha usato the country of your minister, che è stato l’apice dell’ironia...” (Mihajlovski 2001: 136). “Di giorno in giorno, questo dis kantri diventò così familiare che ben presto... anche noi cominciammo ad urlare diskantrija!” (Ibidem: 138; il corsivo è mio).

 

Il cambiamento forzato del nome del nostro paese in this country o the country of our minister non signifi ca nient’altro che un tentativo di ridefi nire la terra natia come luogo senza terra, come spazio fuori da ogni spazio. Qual è tuttavia lo scopo di questo assurdo insistere per far accettare il falso nome di una nazione? Qual è la logica nascosta? Questo insistere riguarda solo lo spazio geografi co defi nito dai confi ni nazionali, o c’è in gioco un tentativo più perfi do – il mutamento di identità di una popolazione autoctona? Chiamare un popolo con il suo vero nome signifi ca infatti riconoscere la sua autoctonia, ma insistere a cambiarne il nome con uno falso è un tentativo di aprire una crepa fondamentale nella sua identità. Questa dovrebbe accettare il gene di inferiorità come segno distintivo e duraturo della nazione.

 

Secondo il dizionario della teoria e critica post-coloniale, si tratta di un tipico piano pro- o neo-colonizzatore con un duplice effetto: da un lato, in questo modo i colonizzatori si assicurano la superiorità, mentre dall’altro potenziano la propria non-appartenenza, poiché questi this o your country nel loro discorso rivelano il loro sentirsi autoctoni in altri confi ni, cioè stranieri e diversi per il popolo a cui vogliono cambiare l’identità. Viviamo la loro insistenza su questo punto come una repressione che, ad ogni nuovo tentativo di cancellare la nostra memoria collettiva, diventa sempre più violenta. Di ciò parla anche il profeta di Diskantrija : “Che la questione del nome sia seria e che il diavolo non scherzi lo si vede quando... l’ammissione nelle Nazioni Unite ci fa tacere fi no ad oggi e ci insegna che i giochetti balcanici sono solo dei Balcani e che il mondo non è affatto interessato ad essi. Ci ammettono veramente, ma con il nome temporaneo di Diskantrija... Siamo stati condannati a percorrere la via verso quell’Europa come pesci sulla terraferma!” (Mihajlovski 2001: 139).

 

Tuttavia, benché sappia ironizzare sul proprio conto, al fi ne di dimostrare il rapporto catacrestico verso il falso riferimento imposto, il popolo di Diskantrija non può dimenticare il proprio Nome. Lo si può mandare via dal focolare domestico, gli si può vietare l’accesso agli archivi, ma non gli si può ordinare l’oblio perché il nome è l’asse portante del sogno nazionale che rende possibile la sua riproduzione nei secoli. Il nome per un popolo rappresenta il suo passato e tutto il suo presente. È il sacrario della sua memoria indistruttibile e del suo futuro indefi nito, che si aspetta un atteggiamento coscienzioso e responsabile dalla propria élite politica e intellettuale. Mi faccio modestamente da parte per lasciare spazio ad uno studio di grande rilevanza del 1996, in cui vengono  trattate questioni molto importanti. Il suo autore nota che “la paura della possibilità di minaccia di una nazione da parte degli Altri, la paura della rappresaglia verso chi è escluso, è un principio costituente nell’elaborazione del principio nazionale, tanto quanto il piacere nel sentirsi esclusi. I due aspetti appartengono al discorso dei confi ni e insieme formano il punto di volta della logica nazionalista” (Gourgouris 2004: 12, il corsivo è mio). Questo è il pensiero di Stathis Gourgouris, che nell’introduzione all’edizione serba del suo Nazione sognata: illuminismo, colonizzazione e fondazione della Grecia moderna (Gourgouris 2004, ed. or. Gourgouris 1996) dimostra di conoscere la lingua universale del topos “che è fatto a pezzi proprio dalla violenza psicologica, incarnata nel mio concetto di nazione (come forma) e nazionalismo (come delimitazione in identità singole ed esclusive). Questo libro usa la lingua di quel topos molto più precisamente rispetto alla lingua in cui è scritto (l’inglese), o alla lingua nazional-culturale (il greco) a cui, nominalmente, si rivolge il libro stesso” (Gourgouris 2004: 7). E aggiunge : “Da un punto di vista nazionalistico, la nazione deve formulare una teoria coerente su di sé... sulle proprie limitazioni, sui propri confi ni. Non penso solo alle limitazioni politiche o geografi che, bensì... anche a quelle simboliche che potevano, o non hanno mai potuto, ottenere una vera esistenza storica... Quelle sapevano di restare indefi nite/inaccettabili persino per una Realpolitik, anche se nella risoluzione di dissidi internazionali spesso sono state chiamate in causa, persino quando... ciò sembrava assai irrazionale” (Ibidem: 11).

 

Non è forse questa una risposta eccezionalmente razionale, corretta e legittima ai dilemmi che una provocazione, per noi dolente, apre agli occhi (soc)chiusi dell’opinione pubblica europea, attendendo con pazienza la sua soluzione giuridica e politica? Lo credo sinceramente, ma è ora di passare ad un altro tema, molto vicino al precedente.

 

Estetica della (ir)realizzazione totale: la gente comune

La questione dello sviluppo del romanzo macedone – almeno quando si tratta della generazione di scrittori nati tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso – segue un trend che inserisce la nuova estetica letteraria come ultimo atto di uno specifi co acting out. Mi prendo la libertà di formulare questa estetica come a-fi nzionale, ma ciò non mi esime dall’obbligo di formularne la motivazione.

 

Nel libro di Jean Baudrillard, Crimine perfetto, è presente un frammento in cui l’autore sviluppa constatazioni assai spiritose e strane. Dice più o meno quanto segue: tutti i soggetti che, in qualsiasi modo, sono stati respinti (esclusi o invisibili) dalla vita reale, ed hanno poi deciso di presentare pubblicamente il loro psicodramma, hanno come predecessore il Portabottiglie di Marcel Duchamp, un singolare acting out  che afferma l’idea che sia giunto l’attimo della breve unione tra vita ed arte, tra la vita e il suo doppio. Come una sorta di videocamera nascosta, che duplica le immagini della vita reale, creando una real-tà virtuale che ci assicura che non viviamo più nel mondo reale, che non esistiamo nella nostra versione originale. “E che cosa saremmo noi, in quel tempo ‘reale’? – si domanda Baudrillard – Ci identifi cheremmo continuamente con noi stessi. Un rebus, simile ad un giorno senza fi ne...” (Baudrillard 1998: 65, il corsivo è mio).

 

Comunque, un “felice cambiamento di posto, senza il quale tutti sarebbero allo stesso tempo me”, ci salva da quella epilessia della presenza e dell’identità. L’illusione dell’altro. Proprio questa capacità – di essere altro, o di essere al posto dell’altro – rappresenta uno dei momenti cruciali nei romanzi della giovane generazione di scrittori macedoni. Per due diversi motivi: in primo luogo per la loro decisione di fare proprie le numerose contraddizioni del postmodernismo; la seconda ragione riguarda la loro strategia narrativa. E precisamente, questi manoscritti a carattere ‘intimo’, di natura diaristica, la cui prima persona linguistica mette al centro della visibilità il loro status sociale, fanno emergere il loro bisogno di mimetizzazione, intesa però non come copertura bensì come rivelazione di qualcosa che è diverso e sta sullo sfondo (si veda Bhabha 2004: 161).

 

Si tratta, in sostanza, della decisione di questi scrittori di restare nascosti, ma comunque suffi cientemente riconoscibili nei personaggi di fi nzione dei loro romanzi. Lidija Dimkovska, ad esempio, ricorda che potrebbe trovarsi dietro all’obiettivo di un chip di memoria da mezzo millimetro, posto in un dito del piede del personaggio Lila Serafi mska: usando in questo modo la posizione di altro nascosto, si presenta come narratore sdoppiato, come “scrittore due in uno” il quale è, allo stesso tempo, attore e regista della propria vicenda sotto forma di diario a-fi nzionale9 in cui – come writer-in-residence – accetterà l’offerta di scrivere un libro sulla gente dell’Europa Orientale e sulle loro esperienze “occidentali”. Pajo Avirovik ´, invece, opta per una variante letteraria più antica e consolidata – la sostituzione dell’identità personale con quella del personaggio di fi nzione Petar Adamovik ´ a cui, oltre alle iniziali del nome e del cognome, affi da il proprio essere altro, la propria “diffi cile schizofrenia” (“serbo di nascita, croato per errore, jugoslavo per memoria, macedone nel cuore, francese nei documenti”) evitando così la questione della propria esistenza reale. Kica Baržieva Kolbe, infi ne, sceglie di nascondersi dietro il personaggio di Dina Asprova, “povera fi glia illegittima di genitori europei per spirito, nata nella lontana Casablanca europea, nella città Justinijana, nella penisola Balkanija”, la quale, raccontando la vicenda del suo nomadismo intellettuale e spirituale, racconta anche la vicenda dei suoi genitori-emigranti dalla Grecia settentrionale, che non sono riusciti a tornare a casa: “Una volta profugo, sempre profugo valeva solo per loro. Avevano vissuto la guerra civile. (Ed io stessa sono una guerra non piccola nella mia biografi a...) Ed io non ho avuto nessuna guerra nella mia biografi a... Non capiscono, con tutto ciò, di essere la mia biografi a... Anch’io sono una profuga, se non reale, allora, senz’altro, virtuale. E questi sono i profughi più terribili, una pura paranoia mentale” (Kolbe 2007: 38; il corsivo è mio).

 

Questa immagine apparente di fi nzione, costruita dagli scrittori macedoni, non è forse una sorta di iperrealtà in cui – mettendo in scena la propria scomparsa – possono, in modo quasi indisturbato, osservare le reazioni del mondo in rapporto alla loro vita reale? E quindi : mentre noi – vittime dell’equivoco, prodotto dalla confusione paradossale di arte e realtà – oscilliamo tra realtà virtuale e fi nzione simulata delle loro opere, Dimkovska, Avirovik ´ e Kolbe “mettono in scena” davanti ai nostri occhi, e a quelli dell’opinione pubblica, il loro reality show. Raccontando le proprie esperienze personali (i frequenti trasferimenti, i problemi con i visti temporanei, il soggiorno in paesi e città straniere, il confronto con lingue e culture diverse...), essi esaminano gli aspetti più elementari della vita in generale: identità, appartenenza, migrazioni, casa...

 

Il secondo elemento che ‘contamina’ la loro diversità, o se volete, fa emergere la questione della diversità nei loro romanzi, è il tema dell’identità. Dipendiamo infatti dallo sguardo degli altri, ma spesso abbiamo anche bisogno di una revisione dell’immagine offertaci dalla percezione degli altri, per affermare che la nostra identità non è pura apparenza ma una costruzione ordinata, che dipende da mutamenti continui e forti trasformazioni. Cercherò di illustrare meglio questo concetto citando un breve brano del romanzo di Avirovik ´, in cui il suo personaggio Petar Adamovik ´ parla della propria identità ‘a più strati’. E cioè: “quando tutti intorno a me hanno cominciato a riconoscersi come macedoni, albanesi, serbi, o quant’altro..., la mia anima di bambino... ha scelto la nazionalità su misura: sono diventato francese, anche se di questo... ne sono diventato conscio con l’enorme ritardo di due decenni” (Avirovik ´ 2006: 100). Libero dai complessi, creati dal passaggio attraverso la fase detta “ricerca dell’identità nazionale”, questo uomo di confi ne sin dalla nascita si trasforma in “uomo di confi ne” per scelta, deciso a bilanciare in sé tutte le proprie identità.

 

Un terzo modo di affrontare la diversità, nei romanzi dei nostri scrittori, si attua mediante il tema delle migrazioni e della casa. La diversità è presente quotidianamente nella vita di Lidija Dimkovska, che comincia così il suo romanzo: “la mia vita, e quella di Lila Serafi mska, cominciano in un sacco a pelo... Penso alla vita che con ogni trasferimento, anche minimo, ottiene un nuovo inizio e una nuova fi ne” (Dimkovska 2004: 7). Il “sacco a pelo” in questione, marca Explorer Light, rappresenta il suo spazio sacro, la sua personale jurta in cui ogni volta, velocemente ma dolorosamente, ricompone la sua vita frammentata. Defi nendosi “scrittrice dal soggiorno temporaneo” che, sotto la lente di ingrandimento del grande Occhio Occidentale, deve scrivere il libro “sullo spirito del nomadismo con i piedi grossi” (Ibidem:8), l’autrice sarà obbligata a sdoppiarsi continuamente, dal punto di vista linguistico ed esistenziale. Come centro mobile, desideroso di una decolonizzazione mentale e politica, ella stabilisce un dialogo con le voci degli Altri – con “i viaggiatori mobili della diaspora” (Gnisci 2004a), i quali, nella loro ricerca di corridoi, hanno intrapreso una ricerca delle proprie radici sostituendo, in questo modo, il vecchio paradigma del monismo culturale con lo spazio dell’esistenza interculturale... o, se volete – dell’interesistenza culturale... Per non perdermi lungo i corridoi segreti dell’intelletto, lascio ad Armando Gnisci la spiegazione di questo dilemma: “Essere migrante, essere in movimento nella diversità – scrive il teorico e comparativista italiano – è lo stato di una poetica, un’etica e una politica, lo stato di trasformazione di sé; il ‘canone occidentale’, quindi, non è una professione del ‘vagabondare’ o di snobismo ‘nomade’” (Gnisci 2004a). Al contrario, la migrazione è uno spazio transitorio, un interessere – che vorrei tanto tradurre con un sintagma esteso, che nella mia lingua madre suonerebbe esistenza tra sé e gli altri, ma temo di perdere metà del signifi cato perché un conto è parafrasare o teorizzare, un altro “migrare” nelle dimensioni reali della vita che somiglia sempre di più ad un simulacro... Almeno per la nostra Dimkovska che si chiede dolente: “Sono stati tutti questi anni di viaggi e nomadismo, anni di una vita-simulacro? Sono state le lingue... simulacro della mia unica, lingua madre? È stato il mio io, scaraventato tra i paesi del mondo, il simulacro del mio io perduto per sempre... il simulacro della ricerca di Dio?” (Dimkovska 2004: 228-229). La risposta a queste domande la si può trovare nel suo alter-ego – il personaggio di Lila Serafi mska del romanzo Videocamera nascosta – che descrive il suo migrare come viaggio interiore, viaggio-digressione, “neutralizzazione dell’est nell’ovest, dei Balcani nell’Europa...” (Ibidem: 138).

 

Leggiamo cosa dicono a proposito Gilles Deleuze e Félix Guattari. Nel noto “Dibattito sulla nomadologia” essi sostengono il carattere mobile dei nomadi, sottolineando però che il cambiamento di luogo non implica necessariamente un movimento fi sico. Il nomade può viaggiare anche nei propri pensieri, muoversi intensamente stando seduto (come un beduino su un cammello con “i piedi dell’equilibrio” rivolti al cielo, non alla terra), senza lasciare la propria stanza o la città natale. Lo facciamo tutti noi che pratichiamo il pensiero non-lineare, ma in particolare mi riferisco ai viaggi interiorizzati dei miei connazionali, che, privati dei benefi ci del regime senza visto, passano ore e giornate intere davanti agli sportelli delle ambasciate europee, dimostrando la propria appartenenza alla grande famiglia europea, mentre attendono con tenacia la risposta all’ipotetica domanda: siamo noi, soggetti viventi e discriminati dei Balcani, parte dell’idea di un progetto “civile” europeo e come possiamo viaggiare liberamente quando – considerate le dure condizioni del regime di visti – l’Europa si prende gioco di noi per il nostro desiderio di cultura mondiale? “Si prende gioco di noi, persino quando ci tiene rinchiusi negli aeroporti o nelle stazioni ferroviarie perché non abbiamo un deposito bancario, un visto valido, un nome valido, il diritto d’autore di esistere, perché siamo sempre sospetti” (Kolbe 2007: 320-321; il corsivo è mio).

 

Questa è l’immagine più ricorrente del nomade macedone, che ha provato il vuoto della propria identità “dinanzi ad un mondo che non puoi cambiare, ma esso stesso ti cambia, ti annienta e ti fa risorgere” (Dimkovska 2004: 113). Come soggetto irrazionale, forse anche aculturale o distruttivo, gli viene concesso di viaggiare liberamente solo attraverso una rete elettronica; se nel ventunesimo secolo fosse necessaria solo tale libertà, allora saremmo davvero gente felice che, in assenza di quella reale, si crea una proiezione virtuale del mondo libero dalla fi losofi a fondamentale del mito della tribù. Gilles Deleuze ha defi nito questa libertà come “nomadismo spirituale”, mentre Hakim Bey come “cosmopolitismo senza radici”, ma entrambe le defi nizioni contengono per noi, soggetti “limitati” dei Balcani, il paradosso essenziale legato alla questione dei confi ni e dell’identità, che ci riporta di nuovo all’inizio di questo saggio senza la soluzione della quadratura del cerchio...

 

Ecco come, attraverso una proiezione catacrestica della rivolta contro le istituzioni del mondo occidentale, la scrittrice Kica Kolbe manifesta la propria delusione verso I “parenti europei di spirito” e i diritti civili. Vivendo il nomadismo come precarium10 – il prendere in prestito una nazione per un uso temporaneo, senza la possibilità di un possesso defi nitivo – il personaggio Dina Asprova del romanzo La neve a Casablanca esclama le seguenti parole: “Mi fanno star male tutta questa civiltà e questa cultura. Voglio fuggire da questo Occidente europeo... dal suo passato grandioso... sparire da qualche parte. In qualche deserto, senza persone, senza libri, senza musei, senza città ideali... Voglio che intorno a me ci siano solo mura vuote, imbiancate. Voglio fortemente che odorino di semplice calce macedone... L’impulso alla fuga, come desiderio perverso di amore e difesa... Solo per questo motivo vago per il mondo. Mi capite adesso? È la cosa più terribile. Io conosco tutto. Conosco le mie domande e le mie risposte. Io sono la interrogata e la interrogatrice di me stessa.” (Kolbe 2007: 17; il corsivo è mio).

 

Anche la sfi da della scrittrice Dimkovska merita attenzione. Diretta verso la politica egemonistica di un’unione culturale falsa, che continua ad ignorare ogni differenza culturale e ogni individualità, assume questa forma: “L’odore dei Balcani ha inondato l’aeroporto di Chicago quando ho tolto le mie scarpe comprate a Skopje, nella Stara čaršija... Al ricevimento a New Harmony mi sono presentata da sola, vestita in un costume tradizionale macedone... I poeti americani sono scoppiati a ridere... Una poetessa più grande di me mi chiede se sotto il costume porto un tanga o delle normali mutandine e se, in genereale, sia possibile portare un tanga con quel costume... Le ho risposto che il Dalaj Lama indossa sempre i boxer sotto la tonaca, anche se dovrebbe portare I mutandoni lunghi. Dopo il ricevimento siamo stati alloggiati nell’edifi cio di un ex-mo-nastero ecumenico, oggi motel... Nella stanza nuova c’è anche il lavandino... Non posso nascondere la mia gioia! Ci laverò le gambe stasera... Il movimento degli altri termina  in corridoio, mentre io alzo le gambe una alla volta e calmo la loro natura nomade nel lavandino” (Dimkovska 2004: 154, 157-158).

 

Ho citato questi brani per offrire un’immagine della condizione che, presso gli scrittori e intellettuali macedoni, provocano le ideologie egemonistiche che parlano la lingua dell’ “imperialismo psicologico”, condotto sistematicamente attraverso una violenza simbolica – divieti amministrativi e torture nelle ambasciate e nei consolati dei paesi Schengen, membri dell’UE (alcuni di essi addirittura non ne sono ancora membri). Tuttavia, se questo è il modo che ci deve preparare alla nuova identità transnazionale, al nuovo status civile post-nazionale (citizenship/citoyenneté), allora è come se noi macedoni fossimo stati creati per assimilare quel punto di vista decentralizzato, da cui si avvierebbe la decostruzione creativa del vecchio consenso europeo11. È il punto di vista dei nomadi intellettuali, la cui tattica “militare” crea “viaggiatori della psiche, perseguitati dal desiderio o dalla curiosità, vagabondi con poca lealtà – sleali verso il progetto Europeo che ha già perso la sua vitalità e il suo ardore...(http://www.hermetic.com/bey/taz3.html#labelTAZ). Non è forse questo il nomadismo spirituale di Gilles Deleuze e Hakim Bey? I nostri nomadi spirituali, di cui tratta il mio saggio, sono gli individui dotati del primordiale codice segreto per conquistare il mondo – non con la guerra o con le aggressioni, bensì con l’immaginazione creativa, con la diversità culturale e le radici spirituali di cui non dobbiamo provare vergogna davanti agli occhi del mondo.

 

Bibliografia

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